lunedì 4 giugno 2012

Le architetture evocate di Adolphe Appia
































Tra i disegni di scenografia più suggestivi per un architetto ci sono senz’altro quelli di Adolphe Appia. Mostrano spazi di grande serenità, costituiti da pochi elementi semplici: pilastri squadrati e disposti in sequenza, scale in pietra che risalgono per piani senza diventare mai troppo ripide. Suggeriscono l’idea di un movimento pacato, rituale, e guidano lo sguardo oltre l’inquadratura, in uno spazio che non è dato vedere ma che l’immaginazione, a partire dallo scorcio che gli è concesso osservare, continua a figurarsi per intero, con le stesse armonie pacate, segnato da una materia altrettanto solida, da una luce altrettanto precisa. Una luce che è quasi densa, atmosferica, il più delle volte crepuscolare, e traccia ombre nettissime e allungate, mai cupe, tenui, quasi trasparenti. Guardando quei disegni, senza conoscerne la storia e l’origine, si penserebbe a vedute di architetture arcaiche, rovine esistenti e conosciute, non ai bozzetti per una scena teatrale.


























Appia è stato per il teatro una personalità decisiva: il ruolo che gli affidano le storie è quello del grande rinnovatore, di chi ha cambiato l’idea della messa in scena dopo secoli di tradizione attoriale. E lo ha fatto a partire dai suoi disegni e dalle pagine dei suoi scritti, da un punto di osservazione eccentrico rispetto alla realtà e alla pratica dei teatri, degli allestimenti concreti che riuscì a realizzare poche volte e molto tardi nella sua vita. A volte, parlando di Appia, gli storici costruiscono un parallelo tra teatro e pittura e parlano degli impressionisti: non lo fanno per lo stile dei suoi bozzetti, ma per la rottura che i suoi lavori segnano per il teatro, paragonabile alla rivoluzione compiuta da Monet e dai suoi compagni. C’è anche chi si riferisce a Cezanne, a Van Gogh: e neppure questo è un accostamento per via di forme o di stile, è invece un’affinità spirituale più alta, più profonda, quella che lega chi è destinato a svolgere un ruolo decisivo ma vive ai margini della cultura che dovrà condizionare; di chi soffre per tale condizione e vive la propria arte insieme con un malessere radicato dal quale non riesce a separarla.

























Le vedute architettoniche di Appia, così affascinanti per noi, hanno avuto un’influenza profondissima nel teatro del Novecento, da Gordon Craig a Svoboda. Sono state la prima palpabile testimonianza di un’idea di teatro come opera d’arte e non più, soltanto, come mestiere, come semplice imitazione naturalistica, più o meno riuscito trompe l’oeil. Nei disegni di Appia l’evocazione non nasce dall’affollamento di dettagli particolari, ma da una rinuncia, dalla determinazione a non voler ripetere meccanicamente ciò a cui si tende, a cui si rimanda. Una rinuncia, una riduzione: quanto meglio si riesce a contenere, a rendere concisi i segni, l’insieme degli oggetti sulla scena, tanto più potente sarà l’evocazione, tanto maggiore sarà la forza intrinseca della composizione, l’autonomia e la coerenza dell’opera, del teatro come atto poetico pieno ed autonomo.

I testi di Appia, nella loro traduzione italiana (curata da Ferruccio Marotti), sono disponibili in rete. Questo è il link per scaricarli in pdf: 
Una bella introduzione racconta la vita dell’autore e descrive i temi principali dei suoi  scritti.

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